Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
L'ultimo raccolto
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 198, p. 3
Data: 21 agosto 1955


pag. 3




   Quando la vendemmia è finita e non è rimasto sotto i mantelli roggi dei pampini che qualche acino rinseccolito, quando il mosto dolce s'è tramutato in vino razzente, quando nelle botti non è rimasto altro che la feccia, quando le sbornie sono passate, non lasciando per ricordo che agrori e raffacci, l'uomo dalla testa imbigita o dischiomata si sdraia, con gli occhi socchiusi, e crede che non ci sia più nulla da fare o da sperare.
   — La vita, dice, mi ha dato ormai il meglio e devo prendere l'abitudine della giacitura dei seppelliti.
   L'uomo sbaglia. I postumi della ubriachezza hanno appannato la sua mente. Anche l'inverno ha le sue messi, i suoi frutti e perfino i suoi fiori. Sono fiori severi, sono frutti legnosi, sono messi scarse e tarde. Ma quei fiori sono più duraturi di quelli nati e morti in primavera, quelle messi sono più nutrienti di quelle mietute nell'estate, quei frutti, nonostante il nemico aspetto, sono più polposi e sostanziosi di quelli maturati dai meriggi dell'autunno.
   Al sole scialboso e fuggiasco del cielo sopperisca il calore più vivo dell'anima, la luce più chiara dell'intelletto, il fuoco più affettuoso della fantasia liberata.
   La primavera fiorisce sempre, l'estate fiammeggia sempre, l'autunno accarezza sempre nel mondo di colui che non si sazia mai dei liquori della vita, che non si dichiara mai vinto dagli eserciti della disperazione e della morte.


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